di Greta Giacobini
One pepperoni pizza, please
La Diavola è la mia pizza preferita. C’è poco da discutere: il salamino piccante è il più grande successo del Meridione. E che non venga letta, nelle mie parole, la benché minima traccia di ironia: quella che nutro nei confronti dell’insaccato è una devozione religiosa e sincera. E’ forse per questo che, quando si tratta di annunciare a un anglofono che il mio cibo preferito è la Diavola, un po’ mi vergogno della sua traduzione. Con un “pepperoni pizza” sussurrato nel più totale imbarazzo, mi pare quasi di tradire me stessa, i suini e i calabresi tutti. Eppure, se le prime generazioni di immigrati italiani hanno deciso di introdurre l’antenato di Domino’s Pizza come se fosse una pietanza veg-friendly-montessoriana, non è certo colpa mia. A me, aspirante sociolinguista e detective macellaia, non resta che indagare le ragioni dello scempio linguistico all’origine di un impasto con nutri-score meno infinito. Senza peperoni.
Il potere dei prestiti all’italiano
A chiunque sarà capitato di incrociare un americano divertito dal suo stesso maldestro tentativo di imitare la “mano a carciofo” tipica della gestualità italiana. A completamento del pittoresco stereotipo, la triade “pizza, pasta, ammmore” si impone con enfasi nella cantilena esasperata di chi non sta nella pelle nello scoprire che l’1% del suo patrimonio genetico è da attribuire all’Italia. Praticamente una singola stoma del suo albero genealogico, ma comunque abbastanza per dichiararsi figli del tricolore. L’appeal della lingua di Dante esercita il suo fascino su stimatori anglofoni sin dalla notte dei tempi, ma fu solo agli inizi del XX secolo che la mescolanza tra i due idiomi raggiunse il suo apice. Con la massiccia ondata di immigrazione che mobilitò oltre quattro milioni di italiani alla conquista dell’American Dream, nel 1920 connazionali barbuti e disoccupati rappresentavano il 10% della popolazione. Risale quindi a quei giorni carichi di speranza l’insinuarsi dell’italiano in quella che sarebbe diventata, di lì a poco, la lingua franca del mondo intero.
Questione di influenza
Ovunque nel mondo, la musica parla italiano. Englishmen in giacca e cravatta si slanciano in un composto “bravo!” per celebrare il maestro che ha diretto il tempo dell’opera, animata da un soprano noto per il suo crescendo in falsetto stridulo. Ma se il merito dei prestiti italiani in ambito musicale spetta tutto a Pavarotti e colleghi, rintracciare i responsabili del lessico dell’arte significherebbe menzionare, uno a uno, tutte le voci dell’indice di un trattato di Vasari. Studio, terracotta, veranda e chiaroscuro sono solo alcuni dei furti linguistici che permettono oggi ai creativi anglofoni di esprimere la loro maestria. Quanto a geografia e scienza, riviera, lava e volcano guadagnano un articolo di dizionario, corredati dall’immancabile etichetta “loanword”. Basterebbe invece un ricettario qualunque per testimoniare l’insieme dei prestiti gastronomici che allietano il palato dei burger–lovers; con cannoli, lasagne, panini e bolognese, gli americani sembrano infatti aver deturpato le ricette ma non i nomi dell’orgoglio culinario nazionale. Che dire, questione di influenze. O di influenza? L’epidemia che mise in ginocchio lo stivale nel ‘700 costò innumerevoli anime e l’aggiunta di “flu” – abbreviazione dell’italiana “in-flu-enza” – nei dizionari firmati Cambridge. Se sia stato un sacrificio ponderato, lo lascio al giudizio dei lettori.
Falsi amici all’italiana
Che sia per gioco, per ignoranza o per ripicca, pare che i connazionali del secolo scorso si siano vendicati della scelta tutta anglosassone di far corrispondere “parents” non a parenti ma a genitori, “argument” non ad argomento ma a litigio, e, soprattutto, “estate” non alla calda stagione ma a… “proprietà immobiliare”. Ci vuole una bella fantasia. Che gli italo-americani abbiano deciso di architettare tranelli altrettanto astrusi è dunque una scelta comprensibile. Ecco quindi che i “confetti” anglosassoni non sono mandorle ricoperte di zucchero – note invece come “Jordan almonds” – ma coriandoli variopinti da lanciare ai neosposi in uscita dalla chiesa. La leggenda vuole infatti che, in origine, i newlyweds fossero il bersaglio di frutta secca condita – i confetti, appunto – prima che gli invitati più acuti decidessero di passare a qualcosa di meno caro e contundente.
Che dire poi di “bimbo”, tenero poppante in terra italiana e frivola milfona tra gli statunitensi. Il termine, apparso negli anni ‘20 tra discendenti di cowboy e laureati alla facoltà del barbecue, designava inizialmente uomini grezzi e di scarsa cultura. Ma non si dovette attendere molto perché l’innocuo italianismo venisse reinterpretato alla luce di un interesse più sentito: quello di insultare le donne. Evidentemente l’inglese non bastava. Con il successo della sua canzone “My Little Bimbo Down on the Bamboo Isle” del 1920, Frank Crumit era destinato a cristallizzare il significato dell’attributo scelto per la protagonista del pezzo: una ragazza attraente ma senza cervello.
E la pizza?
E la pizza niente. Malgrado ribellioni diffuse, nulla è cambiato da quando la redazione di questo articolo ha avuto inizio. La Diavola è, e continua a essere un’ambigua “pepperoni pizza”, come se croccanti segmenti vegetali decorassero la sua superficie lievitata. Durante il periodo d’oro delle macellerie italiane di New York, mentre il mondo era impegnato nella ricostruzione post WW1, anche i butchers di quartiere dovettero affrontare un dilemma dalla portata non indifferente. Come chiamare quei saporiti dischetti made in Lamezia Terme e imballati con cura dalla signora Carmeluzza che ora apparivano sulle pizze degli americani? Noto per la sua piccantezza, il salamino fu presto associato all’ortaggio che ne è responsabile. Ma “peperoncino” contava troppe sillabe per essere pronunciato agevolmente dagli americani. E forse anche dai calabresi. Si optò dunque per una cesura in un punto sufficientemente insolito da garantire un sentore di esotico, con una “p” aggiuntiva per ammiccare alla tipica geminazione italiana. Così nacque la “pepperoni pizza” dal successo transatlantico, e con essa la mia sfiducia nei macellai.
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